COS’E’, COSA SARA’, COSA SAREMO, COSA SARO’…
Cos’è questa vita svilita dalla
prosaica, infinita sequela di
giorni che non mutano nel suo
scadenzario, tanto da obbligarci
a farne parte, con scritti a penna
rossa cancellati, ore, appuntamenti,
grassetti sottolineati, santi,
martiri, quaresime, significati
e significanti. Cos’è questa realtà
se non un enorme teatro? con un
regista folle che ha stipato miliardi
di comparse, di attori mediocri
che hanno bisogno di un copione,
di studiarsi la parte, ripetendola
allo specchio milioni e milioni
di volte, di attrici che dimenticano
la battuta, di costumi di scena
con la fodera scucita, di scenografie
che non cambiano e altre abbozzate
a matita, di intervalli di anni
che hanno il gramo sapore di una
noia infinita, di gobbi sbagliati,
di suggeritori che litigano
o che gramano nella fossa, di
sipari che non si chiudono mai sulla
mediocrità composta. La critica,
che è spettacolo anch’essa, espressa
da esimi studiosi che stanno, con
il capo tra le mani, a leggere
libri e trattati, a pensare che
l’arte debba andare aldilà
dell’arte in un complesso dipanarsi
di emozioni, che ci siano precise
regole, che discutono ore su concetti
che farebbero arrendere un morto,
piegandolo alla logorroica spada
di parole corrotte, che minacciano
i sentimenti fino a renderli
scandalosi. Cosa saremo noi,
timorosi di ascoltare il nostro
contrappunto interiore, ci vendiamo
a ciò che ovvio per poi disperarci
per la nostra tendenza ad essere
miseri. Cosa sarà di me, che voglio
rimanere ignorante, aborro
tutto ciò che vogliono farmi credere,
non voglio migliorare la mia condotta,
chiedermi perché esisto, perché non
posso assopirmi per il tedio, in
pieno giorno, mentre qualcuno mi lacera
con un cilicio di parole sull’ordine
delle cose, mi ripete di valori
che ormai sono diventati una nube
tossica, di storie svilite
dall’incapacità di comunicare;
mi parlano, continuano a parlarmi,
con i vestiti inamidati comprati
per rabbia nelle migliori boutique,
hanno aliti freschi e denti
rismaltati più e più volte il cui
riverbero mi fa quasi paura, io
intanto, con un grembiule ben allacciato
per contenere il cuore, che altrimenti
gli scaglierei contro, macello un maiale.
Cerco, imprecando, di far fluire
il sangue, mentre il suino, appeso
a testa in giù, mi guarda con i suoi
occhi privi di vita, ma più espressivi
dei discorsi che mi fanno i miei
interlocutori sull’istruzione,
sulle lauree, i corsi, gli esami,
l’impossibilità di trovare un
lavoro, i divorzi, i matrimoni
interraziali. Cerco di spellarlo
con l’acqua bollente, raccolgo il sangue
in un secchio dallo squarcio in cui l’ho
scannato; intanto loro parlano
di come gli sia servito viaggiare,
incontrare nuove culture, crearsi
dei nuovi punti di vista, imparare
lingue che gli serviranno in futuro
per aprirsi nuovi mercati. Taglio
la sua pelle spessa lungo lo sterno,
fin dopo l’addome, sudo per
spelarlo e con le mani sozze di
sangue mi asciugo il sudore;
mentre loro continuano a blaterale
di come si sono incontrati, di
ristoranti etnici, di come si
lascino spazi reciproci per
vedere i rispettivi amici,
senza interferire. L’ interiora,
con il suo olezzo acuto, mi cade
sul grembiule, altra cade nel secchio
che avevo messo a terra, mentre
loro cianciano di libri, di ex amori
finiti per incomprensioni, di come
sia difficile trovare qualcuno
che li capisca, di come stiano
facendo carriera. Intanto, prendo
a colpi di mannaia lo sterno che
non si vuole proprio rompere, alla
fine lo spacco con le mani per
prendermi cuore e fegato e
metterli su un tavolaccio, dove
le mosche attendono la loro parte.
Loro mi parlano di contraccezione,
di aborto, di migranti, del partito
per cui votano, delle attività
dei loro genitori, della madre
che si è sposata vergine e del
loro nonno che non le faceva uscire.
Mi concentro sulla testa con colpi
feroci che mi fanno schizzare sangue
denso e schegge di midollo sul
viso e sul petto, lo devo decapitare,
alla fine, aiutandomi con la
forza delle braccia, vincendo la
tenacia dei suoi nervi ceduti
e delle connessioni, la stacco e
la metto sul tavolaccio insieme
al fegato e al cuore. Loro mi
ripetono degli amori nati sul
lavoro, durante i corsi, con i
loro professori, dei loro capi
che ci provano, del barista che fa
battutacce e del parrucchiere gay
da cui si vanno a pettinare.
Affilo un coltello e cerco di
scarnificare le guance della bestia,
per ricavarne un carnoso guanciale.
Purtroppo stanno ancora disquisendo
di palestre, di infedeltà, di
omeopatia, di insonnia, di metodi
per dormire, di musica, di premi
Nobel, di incontri fatali. Mentre
mi preparo le mezzene, le lavo
con un getto d’acqua e tento di
lavarmi anche il grembiule che, ormai,
è diventato scarlatto per il sangue.
Sui visceri, nel secchio, banchettano
le mosche e le vespe. Sto in silenzio
pensando al mio maiale, lo avevo
scelto tra tanti perché mi sembrava
quello più sensibile, mi ha tenuto
compagnia, a volte.
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