Famelico recitar umana appartenenza
Timore di quell’eco, rimbrotto ch’è vorace
schiocca quando improvvido ti arriva e meno te l’aspetti
quell’aggrovigliar matasse che frastorna, insetti
tra loculi distesi senza spreco ed intercetti
finto bene, cocenti sberle pronte a fondere concetti…
Sarà la posta di quel gioco, l’arco, il tendere
e scoccare dardi da impilare al tuo destino, mordi
la memoria di quell’andar ritroso, gelido sbarco
dello Stige, il vacillar d’incanto al sonno rovinando
l’avventura al susseguirsi, quell’andare clandestino.
Pone ed impone flusso questo scivolare in fondo
capsula di un tempo ch’è prestabilito, un mondo
desolato e stanco, a cui duole rendere calore
solo per l’abbraccio per lenire il tuo dolore…
E che sarà mai questa solitudine che ammalia
d’un orso la sua tana, briciola di spazio che s’incaglia
tra te ed il derma pennellato di sciagura, fonte ria, il disumano
la dedica insolente di chi fa baldoria in faccia a chi distende mano
Saranno coriandoli, ciuffi d’erba incolti su questa tundra
opure vergini rampanti la lussuria di questa bolgia,
fossa d’irredenti, sfacciate inconcludenti scene, egemonia
di barbare afflizioni, in quel trepidar invano, la cultura
lo strozzar ch’è incanto di lordi affreschi di interesse e d’usura.
Scritte d’encefaliche odalische,
di porpuree gote lo smembrar di bianchi e di paure
l’infuso di lacrime di fondo nascoste come certe bische
in quel giocar i vanti, logiche perdenti create per le bordure
acide spioventi allegorie ed immagini tracciate sulla pelle.
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